sabato 13 novembre 2010

La banca romana

Pubblico volentieri una nota che mi ha inviato MMST



Se vi è un riscontro verosimile nel panorama della storia monetaria italiana relativo alle paranoie signoraggiste, questo ha il nome della banca romana.

Nata nel 1835 grazie a capitali francesi e belgi la banca romana divenne l’istituto d’emissione dello stato pontificio e dal 1870 una delle sei banche italiane autorizzate a battere moneta confermato dalla legge sugli istituti d’emissione del 1874.


Gli istituti di emissione che potevano emettere moneta secondo la normativa nei limiti massimi di tre volte il capitale

societario e di tre volte l’ammontare delle riserve in metalli preziosi, avevano il compito di accompagnare e sostenere lo sviluppo economico italiano della seconda metà del ‘800, un periodo che vedeva per alcune regioni la nascita della rivoluzione industriale, accompagnata da una consistente crescita economica, da uno sviluppo urbanistico ed edilizio.


Allo stesso tempo si esponevano alle turbolenze finanziarie internazionali, la cui fragilità è testimoniata dalle frequenti crisi dei mercati, poteva generare repentini rientri dei capitali stranieri causando veri e proprie rischi di solvibilità dell’intera economia nazionale. Pertanto il governo garantì tacitamente protezione ripristinando il corso forzoso a ogni segno di crisi di liquidità e allentando i requisiti di riserva tramite decreti negli anni ’80.


Inoltre era affidato all’esecutivo il ruolo di controllo tramite il potere di ispezione, carica nella quale il governo dimostrerà di non avere alcun requisito di trasparenza, indipendenza e credibilità che dovrebbero appartenere a ogni autorità vigilanza.


Gli anni’80 videro in questo contesto la banca romana guidata dal governatore Bernardo Tanlongo, protagonista in una serie di operazioni spericolate di prestiti nel settore edilizio senza corrette valutazioni dei progetti o senza le dovute garanzie con conseguenti esposizioni messe fuori bilancio che violavano i limiti e le normative di legge. Per proteggersi in caso di bancarotta il governatore Tanlongo aveva coltivato una serie di clientele politiche mantenute a suon di quattrini che comprendevano tra le decine di parlamentari, tre presidenti del consiglio e il re Umbeto I.

Di fronte alle spese abnormi e allo scoppio della bolla immobiliare che ha messo sul lastrico l’istituto Tanlongo si mise a fare signoraggio in proprio, decidendo di coprire gli ammanchi di cassa con l’uso della stampante.

Nella prima ispezione del 1888 vennero scoperte duplicati di banconote (stampate con lo stesso numero di serie) per un ammontare di 9 milioni di lire, ufficialmente ordinati dalla tipografia per sostituire le banconote vecchie in realtà mai ritirate; i risultati rimasero sulla scrivania del ministro dell’industria e non vennero resi pubblici.

A un successivo controllo nel 1892 il conto delle banconote replicate abusivamente venne rettificato a 40 milioni e più di 70 milioni le esposizioni in eccesso oltre i limiti stabiliti dalla legge, nel 1893 quandò venne messa in liquidazione e il suo governatore rinchiuso in carcere, la banca romana a fronte di riserve nulle aveva più di 100 milioni di lire in banconote in circolazione.


Che le prove siano state ignorate o distrutte dai giudici è solo un dettaglio, che ha portato all’assoluzione di tutti gli imputati coinvolti.

Conseguenze per la politica furono poche; Crispi stette saldamente in poltrona guidando il governo, Giolitti rimase in parlamento aspettando il suo turno per riprendere la presidenza del consiglio nel 1903 avendo una carriera politica paragonabile a quella di Andreotti, insomma i fatti dimostrano che questi soggetti pur rispondendo al popolo ed essendo soggetti ad elezione (sebbene a malapena votavano il 5% della popolazione), hanno fabbricato porcherie difficilmente replicabili.

Ora da questi fatti si possono fare due tipi di riflessioni.

Si può esaminare seriamente la questione evidenziando la questione della mancanza di separazione tra i poteri; cercare per esempio di capire che senza un CSM i giudici diventano ricattabili e aggredibili dal potere politico, e che se l’autorità di vigilanza legifera sui controllati o ha potere esecutivo verso i controllati non sempre la soluzione è ottima, se viene corrotta poi perde ogni tipo di crebilità indipendentemente dal suo processo di nomina.

Oppure si può considerare il problema il fatto che Tanlongo non fosse un dipendente pubblico o una soggetto non eletto ogni cinque anni pensando che la magica parola sovranità popolare risolva ogni tipo di questione.

Ad ognuno la propria conclusione.



Riferimenti:

Le banche di emissione in Italia trail 1861 e il 1893:un caso di concorrenza?
Lo scandalo della Banca Romana



La rai ha fatto anche un film:

Lo scandalo della banca romana
di cui questa è la locandina web

venerdì 12 novembre 2010

Banca Centrale, potere effettivo, conflitto di interessi e proprietà delle banche

Posto un altro articolo tratto dal nuovo pdf di Foto Gian


I partecipanti al capitale della Banca d'Italia non sono azionisti qualsiasi. La legge bancaria del 1936 art. 20 [12] riserva le quote a banche, assicurazioni e istituti di previdenza rimasti fino al 1992 di proprietà pubblica.
Oggi tra i principali azionisti delle banche, trasformate in spa o banche di credito cooperativo dalla legge Amato-Ciampi del 1992, ci sono le fondazioni bancarie, i cui consigli di amministrazione sono nominati dagli enti locali e dalle organizzazioni professionali.
Anche se trasformata in spa, la proprietà di molte banche resta sotto il controllo pubblico sotto forma di fondazione bancaria.

Perciò se dovessimo applicare la logica di chi dice che la Banca d'Italia è privata perché sono privati i suoi azionisti, dovremmo concludere che la Banca non è affatto privata e, paradossalmente, non sarebbe privata neppure se fosse organizzata come una società per azioni.

Infatti le banche -seguendo tale logica- sono da considerarsi pubbliche, visto che le fondazioni che le controllano non appartengono ad azionisti privati né seguono interessi privati.
Ma se le banche che possiedono quote del capitale della Banca d'Italia non sono private, neanche la Banca lo è e non lo sarebbe neanche se fosse organizzata sotto forma di spa.

Il potere effettivo degli azionisti è di fatto nullo. Lo disse nel 1926 J.M.Keynes che riferendosi alla Banca d'Inghilterra ha scritto: è un “caso di istituzione che teoricamente è di proprietà assoluta di alcune persone private” ma che “non vi è classe di persone nel Regno quanto i suoi azionisti cui il governatore della Banca d'Inghilterra pensi di meno quando decide circa la sua politica” [13].

Senza potere, scompare il conflitto di interessi, in nome del quale, peraltro, già nel 1936 lo Statuto della Banca esclude dal Consiglio superiore della Banca gli amministratori delle banche. Ce lo ricorda lo storico De Rosa [14] che racconta di come il presidente dell'Associazione delle casse di risparmio italiane, De Cataldo, dopo aver chiesto alle banche associate di convertire le 140.000 azioni possedute e di incrementare il numero delle quote di Bankitalia, puntasse a far valere il peso degli associati nella nuova Banca d'Italia.

Attesa delusa. Il governatore Azzolini spiegò che era stato Mussolini a volere l'esclusione degli amministratori delle banche dal Consiglio superiore “sulla base del principio che gli Istituti vigilati non potevano diventare nello stesso tempo organi vigilanti” [15].

(11) De Mattia, Storia del capitale..., pag. 57
(12) http://www.italgiure.giustizia.it/nir/lexs/1938/lexs_110993.html
(13) J.M.Keynes, La fine del laissez-faire, in Teoria generale, UTET, 2006, pag. 128
(14) De Rosa, Storia delle casse di risparmio e della loro associazione, Laterza, pag. 313-4
(15) De Rosa, Storia delle casse di risparmio e della loro associazione, Laterza, pag. 314
(16) Krugman P., Il ritorno dell'economia della depressione e la crisi del 2008, Garzanti, pag. 181

giovedì 11 novembre 2010

La frottola dei soci occulti della Banca d'Italia (aggiornamento)

Pubblico la nuova versione della sezione omonima dell'ormai noto pdf di Foto Gian

Un'altra frottola riguarda i soci della Banca d'Italia, che sarebbero ignoti, mentre Bankitalia
sarebbe una società per azioni.
Nel primo numero del 1994 il settimanale religioso Famiglia Cristiana ha scritto che l'elenco dei partecipanti era riservato. Concetto ribadito da molti siti internet interessati al signoraggio.
La memoria rimanda alla bufala secondo cui Kennedy è stato ucciso per questioni legate al signoraggio. Se si cerca la fonte nel libro Il paese dell'utopia, si scopre che la fonte è un periodico religioso, che ha collegato la morte di Kennedy al signoraggio.

Insomma, che si tratti dell'uccisione di Kennedy o dei partecipanti al capitale della Banca d'Italia, la fonte è sempre un periodico religioso. Non un testo di economia o di storia.
Ma cosa si sapeva prima del 2004? Volendo, si poteva sapere tutto. Basta cercare i bilanci delle banche degli anni 1999-2001 per trovare indicazioni sulle quote del capitale della Banca d'Italia.

Ecco alcuni esempi.
Nel bilancio della piccola Cassa di Risparmio di San Miniato del 2001 (pag. 106) è iscritto lo 0,2173% del capitale della Banca d’Italia per un valore nominale di 652.000 lire.
Nel bilancio 2000 di Unicredit Group4 si trovano le quote (oltre il 10% in totale) possedute dalle nove controllate.
Il Banco di Sicilia (pag.222/339) nel 2000 aveva quote corrispondenti al 6,343% del capitale di Bankitalia. Il Monte dei Paschi di Siena (pag.108) nel bilancio 2002 risulta avere 7500 quote.
Milano Assicurazioni (pag. 296) nel 2001 aveva 2000 quote.
I dati nei bilanci delle singole banche erano quindi disponibili prima dell'elenco presentato da
Mediobanca, che ha solo letto i bilanci di banche e assicurazioni prendendo nota delle quote del
capitale di Bankitalia possedute da ciascuna.

Chiunque avrebbe potuto fare lo stesso. Bastava disporre dei bilanci delle banche. Ma nessuno l'ha mai fatto fino al 2003. I dati quindi non erano riservati. Semplicemente nessuno è mai andato a cercarli.

O forse nessuno ha mai cercato le fonti. Io ho chiesto aiuto al professor Gianni Toniolo, che mi ha consigliato di cercare i libri di Renato De Mattia. Ho trovato Storia del capitale della Banca d'Italia e degli istituti predecessori, edito dalla Banca d'Italia nel 1977.

Curioso che è stata la Banca a pubblicare su questo tema un libro consultabile in decine di
biblioteche pubbliche in tutta Italia.

E colpisce che, come si può leggere a pag. XVIII della prefazione, il primo ad essersi occupato -con l'assenso del governatore Azzolini- del tema del capitale della Banca è stato, nel 1938, Paolo Baffi, che diventerà governatore.

Lo studio di Baffi, interrotto a causa della guerra, è stato poi ripreso, idealmente, da De Mattia a metà degli anni '70 ed sfociato in un voluminoso libro in 2 tomi edito dalla Banca d'Italia.
Ce n'è abbastanza per escludere una volontà di nascondere i dati da parte della Banca d'Italia.
De Mattia ricostruisce la storia della Banca d'Italia, che nasce nel 1893 dall'unione di diverse banche con diritto di emettere moneta presenti nel momento dell'Unità d'Italia. E' una società per azioni e le sue 300.000 azioni finiscono nelle mani di azionisti privati, in maggioranza liguri e piemontesi.

Le azioni sono quotate in molte borse italiane e, negli anni venti, il loro prezzo oscilla troppo. Così dopo la riforma bancaria del 1926, la Banca d'Italia decide un aumento di capitale. Si emettono 200.000 azioni, metà delle quali assegnate alle Casse di Risparmio, che si impegnano a non rivenderle per almeno 10 anni. Lo scopo è stabilizzare il prezzo delle azioni.

Le casse di risparmio si ripartiscono le azioni “in proporzione ai depositi amministrati” a fine 1927 e l'elenco è stato pubblicato nella Relazione all'adunanza generale straordinaria degli azionisti della Banca d'Italia del 18 giugno 1928. Sono 107 le casse che aderiscono all'aumento di capitale e i nomi si trovano nella tabella 20 del tomo II del libro di De Mattia, divise per aree geografiche.
La suddivisione regionale risponde a una esigenza di attenzione ai territori richiesta alla Banca, che nomina il Consiglio Superiore con diverse elezioni presso le sedi regionali.

Nel 1936 cambia tutto. La Banca d'Italia non è più una spa. Diventa un istituto di diritto pubblico.
Si procede al rimborso degli azionisti privati, che ricevono 1.300 lire per ogni azione posseduta e all'assegnazione, da parte di un Consorzio, delle quote del capitale da parte dei "partecipanti" che possono essere solo banche, assicurazioni e istituti di previdenza.
Il Consorzio decide che le casse di risparmio, che nel frattempo hanno comprato altre azioni (circa 42.000) nella speranza di contare di più nel rapporto con la Banca d'Italia, investano nel capitale della Banca la somma derivante dalla rimborso delle azioni.
1300 lire per oltre 140.000 azioni (100.000 sottoscritte nel 1926 più quelle acquistate in seguito) danno luogo a un rimborso di oltre 185 milioni di lire, reinvestiti, da 88 casse in 185.056 quote (su 300.000 totali).

La maggioranza del capitale è in mano alle casse di risparmio, che tuttavia decidono poco o, meglio, nulla, come ha raccontato lo storico Luigi De Rosa [nota].
Le restanti 114.944 quote sono ”ripartite pro rata fra gli alti enti e istituti nominati dalla legge partecipanti al consorzio”11, vale a dire tra 11 banche, 9 assicurazioni e l'INPS che ottiene 15.000 quote.
Tutto ciòè raccontato da De Mattia nel libro del 1977, ma era noto già nel 1937.

Basta procurarsi l'Adunanza generale ordinaria dei partecipanti di Banca d'Italia relativo al 1936, l'equivalente dell'epoca della Relazione annuale del governatore per leggere a pagina 71 che:

"Al 31 dicembre 1936, gli enti e istituti possessori delle 300 mila quote di partecipazione al
capitale della Banca erano suddivisi nelle seguenti categorie:
Casse di risparmio, n.88 per quote 185.056
Istituti di credito e banche di diritto pubblico, n.11 per quote 68.444
Istituti di previdenza, n.1 per quote 15.000
Istituti di assicurazione n. 9 per quote 31.500"

De Mattia offre dati più particolareggiati, perché -si può supporre- ha avuto a disposizione
documenti presenti solo nell'archivio romano della Banca. E' così possibile conoscere la
distribuzione delle quote per per categorie di soggetti proprietari e in base alla distribuzione
territoriale (tabella 21, tomo II), distribuzione utile a capire quali banche possedessero quote.

Ad esempio esiste un solo istituto di diritto pubblico toscano: può solo essere il Monte dei Paschi di Siena; un solo istituto in Piemonte, che possiede 2500 quote: è l'Istituto Bancario San Paolo.

Infine De Mattia racconta i pochi passaggi di proprietà delle quote dal 1937 in poi. In pratica il capitale della Banca è rimasto sempre nelle stesse mani.
Fino al 1992, aggiungo io, quando arriva la legge Amato-Ciampi che dà il via al valzer delle fusioni e acquisizioni bancarie e, con esse, all'aggregazione delle quote del capitale della Banca d'Italia, possedute oggi per oltre il 42% dal gruppo Intesa-San Paolo direttamente e indirettamente attraverso le banche controllate, come la Cassa di Risparmio di Bologna.

Il fatto che solo nel 2003 siano saltate fuori notizie sui partecipanti al capitale si spiega con i pochi passaggi di quote da una banca all'altra. Un tema interessa se cambia qualcosa. La distribuzione del capitale della Banca d'Italia è rimasto praticamente invariato per decenni e a pochi è venuta la voglia di occuparsi dell'argomento.



[nota]
De Rosa, Storia delle casse di risparmio e della loro associazione, Laterza, pag. 306 e seguenti
De Rosa racconta che il presidente dell'associazione delle casse (ACRI), De Capitani, riteneva di poter contare di più nel Consiglio Superiore della Banca d'Italia e per questo motivo chiese alle casse di acquistare azioni. Aveva ricevuto assicurazioni in tal senso dal governatore Azzolini.
Ma alla fine nel Consiglio Superiore non entra alcun rappresentante delle Casse, che pure avevano oltre il 60% delle quote, a dimostrazione di quanto contino davvero i partecipanti nella Banca.
Nello statuto si stabilisce infatti l'incompatibilità per gli amministratori delle Casse di Risparmio, delle Banche e degli Isituti di diritto pubblico a far parte del Consiglio Superiore della Banca d'Italia.
Le Casse protestano ma si sentono rispondere che gli istituti vigilati non potevano diventare organi vigilanti e che tale decisione era stata presa da Mussolini (De Rosa, pagg. 313-314)